PROTESTANTESIMO
RIFORMA PROTESTANTE, UMANESIMO, NUOVA EUROPA
Il grande fenomeno della Riforma protestante è ancor oggi un problema storiografico aperto, per non dire insoluto, afferma Paolo Ricca. Le fonti sono da tempo note ed accessibili a tutti; le molteplici ricerche hanno chiarito i vari ambiti ed arricchito le nostre conoscenze. Non sono però univoche le risposte circa la natura del protestantesimo storico e delle sue relazioni con la Controriforma cattolica e con il mondo moderno. Martin Lutero (1483-1546) non voleva certo cambiare la Chiesa, diffidando dei cambiamenti esteriori. Per lui “riformare” significava “ri-sostanziare” la Chiesa con la parola di Dio. “Lutero intendeva restituire alla fede della Chiesa tardomedievale e alla vita della ‘societas christiana’ del suo tempo una sostanza evangelica divenuta sempre più evanescente e inconsistente”. Come allora si arrivò a una divisione così profonda del Cristianesimo occidentale, tenendo conto che unità e diversità della Chiesa avevano caratterizzato il secolo apostolico?
L’uso del termine “protestantesimo” ha un riferimento alla seconda dieta di Spira (aprile 1529), quando i principi tedeschi protestarono contro la volontà dell’imperatore di revocare la decisione di tre anni prima di lasciare alle autorità politiche di ciascun territorio la libertà o meno della predicazione evangelica e dell’attuazione della Riforma, in attesa della convocazione di una concilio generale, con l’affermazione: “Nelle cose che riguardano la gloria di Dio e la salvezza delle nostre anime e la beatitudine eterna, ciascuno deve stare davanti a Dio e rendergli conto per se stesso”. Tale testo ricordava la dichiarazione di Lutero a Worms nel 1521: “A meno che io non venga contraddetto con testimonianze della Scrittura o evidenti argomenti di ragione (…) sono soggiogato dalle parole della Scrittura che ho citato. E fino a che la mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio non posso né voglio ritrattare”.
Il protestantesimo non può essere separato poi dalla formazione del mondo moderno: è un movimento di fede ed una confessione religiosa, ma anche un fenomeno storico culturale, che forgia le persone e permea intere comunità e società. Uno stretto rapporto, secondo Paolo Ricca, può essere individuato fra protestantesimo e capitalismo e fra protestantesimo e democrazia. Con Giovanni Calvino, e ancor più con il puritanesimo del secolo seguente, nasce un tipo di uomo dal rigore etico, con una concezione vocazionale del lavoro e uno stile di vita austero e frugale, incline al risparmio, il quale determina la crisi definitiva del mondo feudale medievale. La concezione poi di forme collegiali religiose (concistoro e sinodo) diventa un modello di governo, che riconosce il potere all’assemblea dei credenti.
Tentiamo di individuare allora le origini profonde di questo movimento religioso-culturale-politico, che ha percorso l’Europa nel secolo XVI, sulla linea di quanto afferma il più grande storico del protestantesimo Emile G. Léonard, che presenta Calvino come “fondatore di una civiltà” e “creatore di un tipo di uomo”.
- La nascita della nuova Europa
Con la Riforma protestante si spezza la fede, dato che si afferma una nuova forma, essenzialmente diversa, di Cristianesimo. Chiarire le cause, scrive Joseph Lortz, non è facile perché si incrociano in esse componenti culturali, politiche ed economiche. La Riforma, osserva lo storico citato, “fu preparata e causata dallo sgretolarsi dei principi fondamentali, e quindi degli atteggiamenti fondamentali che reggevano il Medioevo”. Al venir meno della stabilità del patrimonio religioso della Chiesa e alla montante scontentezza del popolo, si associa la decomposizione interna della Chiesa a causa dei movimenti ereticali e dell’indifferentismo della cultura rinascimentale. Nel Medioevo la Chiesa aveva acquisito patrimoni con le donazioni carolinge, con la politica filoecclesiastica degli Ottoni e con le donazioni dei fedeli. Con il formarsi delle monarchie nazionali fuori d’Italia e con il costituirsi dei Comuni, si svilupparono di conseguenza tensioni e lotte, per ottenere quanto la Chiesa possedeva. Contemporaneamente si levava la protesta delle classi umili, scandalizzate da tali ricchezze in contrasto con la povertà evangelica.
Al tempo della Riforma la Germania era molto frammentata, in preda all’anarchia politica: non aveva un sovrano nazionale, essendo l’imperatore sempre più di cornice, senza mezzi economici forti, detentore di una eminente dignità non ereditaria. C’erano circa 400 principi che cercavano la grandezza e la ricchezza della propria dinastia. Le città tedesche erano invece nel più grande splendore, con una borghesia fiorente. I Fugger avevano fatto delle fortune colossali: “Codesti uomini - scrive Lucien Febvre - sono i re di un mondo nuovo che ha rovesciato la scala dei vecchi valori”. Le campagne, popolate da gente con costumi primitivi, contrastavano con le città ricche di fascino, ritenute dei microcosmi. I tedeschi soffrivano della debolezza politica, rispetto alla Francia e all’Inghilterra. È significativa l’affermazione di Lutero: “Non c’è nazione più disprezzata della Germania! L’Italia ci chiama bestie; la Francia e l’Inghilterra si burlano di noi e così tutti gli altri”. I principi non volevano far crescere l’autorità dell’imperatore, che rappresentava la cristianità universale tardomedievale, e tendevano a farlo presidente onorario. Mentre l’imperatore doveva continuamente recitare davanti al Papa le proprie concezioni di capo della cristianità, i borghesi e i contadini guardavano ai possedimenti della Chiesa tedesca, insoddisfatti dei “gravamina” della curia romana. In questo quadro dominavano gli interessi: “Guadagnare denaro, cioè votare la propria vita al guadagno; fissare il profitto come scopo della propria attività; la pratica non è indifferente all’uomo morale”. Veniva meno così la vecchia mentalità artigiana del Medioevo.
Qualche anno più tardi, quando la Riforma passa in Svizzera, essa si esprime in forma nuova in un contesto urbano, dove non predominavano le tensioni dei principi ed imperatori, essendo qui già consolidato un rapporto democratico che si preoccupava anche della vita religiosa. In questo contesto si colloca l’opera di Giovanni Calvino, che parla di “repubblica dei Santi” a base democratica e tratteggia il cristiano come uomo attivo, sobrio, lavoratore instancabile e scrupoloso, sottomesso alla volontà di Dio: “Per nutrire gli uomini nella giustizia e nella pace è necessario che ciascuno possieda il suo, che si facciano vendite e compere, che gli eredi succedano a coloro che devono succedere”. Nasce così un “ethos” nuovo, che seppellisce il Medioevo.
- Rinascimento ed umanesimo
L’istanza al rinnovamento è alimentata dalle correnti culturali dell’epoca, le quali avevano sostituito al teocentrismo medievale l’antropocentrismo rinascimentale. L’uomo aveva ritrovato così in sé una quantità di energie e si era risvegliata in lui la coscienza individuale e il senso storicistico.
Il movimento, soprattutto in Italia, è contrassegnato dal ritorno alle radici antiche, alla cultura greco-romana. Si era sviluppata l’interpretazione dei testi antichi, che secondo Corrado Algermissen non si leggevano più da cristiani come nel Medioevo, ma come realtà con la quale immedesimarsi e da riproporre. Si era arrivati all’assimilazione del paganesimo, all’antropocentrismo, alla visione soggettiva, in sostituzione di quella oggettiva. Conseguenze inevitabili erano il relativismo dogmatico e la ricerca dell’arte in termini di esteticità, del tutto autonoma dalla morale. Il risultato era stato un ingente movimento artistico europeo, nel quale i temi religiosi attingevano l’ispirazione da miti pagani e la vita si adeguava a criteri mondani.
L’umanesimo entra in connubio con la teologia. La dottrina della redenzione si incontra con la sapienza stoica e diviene autoredenzione. Fra le correnti filosofiche si afferma il pensiero di Guglielmo d’Occam (+1348), che vede la Bibbia come unica fonte di rivelazione, essendo la conoscenza intellettuale prodotto dell’intelletto, che collega soltanto le diverse percezioni. I concetti generali (universali) non sono altro che convenzioni: “la scienza non ha quindi nulla a che fare col dato oggettivo e non può di conseguenza dare nessuna base alla fede”. In tal modo si cerca di superare la dissoluzione razionalista, ma si approda a una concezione volontaristica di Dio, da cui tutto dipende. Le conseguenze sono che Dio ha dato all’uomo alcuni precetti, il merito è una qualità estrinseca pure data da Dio, la cancellazione di una colpa è “non imputazione”. La discussione della teologia è come conciliare la volontà divina, che tutto determina, con l’origine immorale dell’uomo.
In Germania l’umanesimo si affermò nella seconda metà del secolo XV e coincise con il ridestarsi della coscienza nazionale. Erasmo da Rotterdam (1466-1536) è l’espressione massima dell’umanesimo, il quale lascia una impronta profonda nella filologia, nella critica storica e nella teologia. Egli combatte il meccanismo della religione e ogni giustizia attraverso le opere. In lui c’è un certo disinteresse per il dogma e una attenzione alla pratica religiosa e morale. Egli rimane nella Chiesa, senza vivere di essa. La sua personalità è molto complessa: non fu teologo scolastico, né scettico ottuso; uomo serio, ineccepibile, si consacrò con passione al lavoro intellettuale. Fu discepolo a Oxford di John Colet, di Marsilio Ficino e consigliere di Tommaso Moro. La sua teologia non è sacramentale: “Si concentra nella realizzazione della vita in devota moralità, anzi in una corrispondente deistica culturale, che non è sempre sufficientemente profonda per promuovere un sì deciso a Cristo e a tutta la Chiesa”. Fu accusato di mancanza di chiarezza teologica e di un certo relativismo.
Lutero, dapprima ritenuto espressione pratica di Erasmo da Rotterdam, entrerà in opposizione con lui per la sua concezione pessimistica sulla condizione umana e, angustiato dalle dottrine di Guglielmo d’Occam, tenterà una risposta appellandosi alla dottrina agostiniana del peccato e della grazia, facendo propria la mistica tedesca della “passività”.
- Decadenza religiosa e morale
Al vasto movimento culturale e politico si accompagna una crisi profonda del papato. Innocenzo III (1160-1216) manifesta il massimo della supremazia politica del papato, ma alla sua morte inizia per la Chiesa una lunga e difficile contesa con l’autorità politica per la libertà della Chiesa, fino ad arrivare al disgraziato settantennio della cattività avignonese (1305-1377). Ad Avignone si sviluppò una economica monetaria (fiscalismo) indegna di ecclesiastici, connessa frequentemente alla simonia e al nepotismo. Di fronte alle nuove spese per il papato, furono introdotti i “reservata”, con i quali si acquistava il diritto su un beneficio, che era venduto anche a più persone; si lasciavano vacanti alcune sedi vescovili per assicurare direttamente gli introiti alla curia; si dispensava dalla residenza. La Chiesa perde così il suo prestigio in Occidente e si arriva allo scandalo di tre papi contemporanei (Roma, Avignone, Pisa). La ricomposizione avviene con i Concili di Costanza (1414-1418) e di Basilea (1431-1437), mentre si affermano le tesi conciliariste della superiorità del Concilio sull’autorità del Papa: l’inglese Giovanni Wyclif (+1384) afferma che unico capo della Chiesa è Cristo e che la Chiesa è la comunità invisibile dei predestinati; Giovanni Huss (+1415) in Boemia diffonde una diversa concezione della Chiesa e del sacerdozio.
Dopo il concordato di Vienna del 1448 il papato risulta rafforzato dal punto di vista economico-politico, ma non religioso. Tramonta l’idea antipapale del tardo Medioevo, ma si afferma il centralismo della curia, che dispone arbitrariamente del conferimento e della revoca dei privilegi e delle pene. L’idea conciliare, condannata nel 1460, sopravvive in Germania. Tutte le cariche ecclesiastiche sono occupate da nobili, che entrano in possesso dei seggi avidamente bramati. La Chiesa è straordinariamente ricca: “I canonici erano diventati ‘feudatari di Dio’ e i capitoli ‘ospizi per la nobiltà’”. Era comune l’accumulo dei benefici con godimenti mondani, senza morale. Accanto ai vescovi e ai canonici, esisteva un proletariato ecclesiastico, fatto di sacerdoti senza vocazione, senza interiorità, i quali vivevano nell’ozio e nel concubinato, senza cultura, addetti alla sola celebrazione della messa. Gli ordini religiosi, nonostante esperienze esemplari di rinnovamento, seguivano la decadenza generale, abitando monasteri molto ricchi, senza disciplina.
La decadenza morale delle varie corti ecclesiastiche, alla ricerca di sempre nuove fonti di reddito, deturpò così il volto della Chiesa. La stessa società civile, arroccata nella difesa dei nuovi privilegi, esasperò le sofferenze delle masse popolari, mentre gli spirituali si ritirarono in forma di misticismo personale. Il popolo obbediva, subiva l’autorità religiosa e si alimentava con devozioni ispirate a scritti profetici-apocalittici. Fiorivano libri, leggende, letterature edificanti, confraternite; abbondavano atti esteriori di culto, avallati da indulgenze e meriti; la messa risultava svuotata di ogni significato. Per una stretta cerchia di persone c’era l’“Imitazione di Cristo”, che insegnava la strada di un cammino individuale di salvezza. Joseph Lortz parla di “cosalizzazione” e di deficienza sacramentale, di moralismo, di ricerca di salvezza dalla dannazione, non di amore di Dio: “la base di fede, l’intelligenza delle realtà credute era per lo più evanescente, confusa, la concezione dei sacramenti nel battesimo e nella messa molto pratica”. Si era in presenza di una fede infantile.
In Italia Girolamo Savonarola (1452-1499), domenicano condannato al rogo, predica con accenti apocalittici contro la decadenza dei costumi a Firenze. Egli aveva una fede vigorosa, una pietà irreprensibile, una pratica di rigida penitenza. La sua predicazione era di tono profetico: la Chiesa deve venir castigata e rinnovata fra breve. È interdetto nella predicazione, e dopo il suo rifiuto, viene condannato. Egli non è un pre-riformatore, in quanto visse e rimase nella Chiesa e distinse sempre persone e funzioni. Tuttavia la Riforma della Chiesa era l’anima della sua predicazione.
(G. Dal Ferro)